Secondo Yves Bonnefoy grande lirico francese, e celebre traduttore di Shakespeare, Petrarca e Leopardi il tradurre appartiene a quel modo di accostarsi all’opera letteraria che egli definisce un «leggere scrivente». Vale a dire: lo sforzo di accostarsi al presente di chi scrive, nello spirito comunitario di ripetere la sua esperienza vissuta mentre scriveva; riecheggiare la risonanza dell’altro, appunto. Un «dire quasi la stessa cosa» che, nel caso del tradurre, giunge al suo modello migliore con la traduzione della poesia, in cui ciascuna parola è solitaria e irripetibile, scritta dal poeta rifuggendo dai sinonimi. Quanto di più lontano, dunque, la traduzione, dal trasferimento di segni e significati tra due codici, come nelle pretese delle cosiddette «macchine per tradurre». Bonnefoy presenta in questo libro la teoria derivante da questo nucleo, accompagnandola con la descrizione di importanti casi concreti di traduzioni da lui condotte a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo. «Tradurre, che è capire, significa allora passare per il non-detto quasi detto, garantendo all’opera di accedere oggi almeno a una parte di quello che avrebbe voluto dire: a un po’ più della sua verità. La traduzione non deve essere il calco della letteralità della poesia ma l’ascolto del desiderio di chi la scrisse, e il compimento di quel desiderio in un testo rimasto suo. Essa deve udire un richiamo, e dargli risposta. Deve aiutare l’opera nel suo sforzo più difficile, che fu sempre, per la trasgressione poetica, di percepire ciò che stava compiendo; ed è allora illuminarla, mostrando di più la sua inscrizione nella storia».

La comunità dei traduttori

SCOTTO, Fabio
2005-01-01

Abstract

Secondo Yves Bonnefoy grande lirico francese, e celebre traduttore di Shakespeare, Petrarca e Leopardi il tradurre appartiene a quel modo di accostarsi all’opera letteraria che egli definisce un «leggere scrivente». Vale a dire: lo sforzo di accostarsi al presente di chi scrive, nello spirito comunitario di ripetere la sua esperienza vissuta mentre scriveva; riecheggiare la risonanza dell’altro, appunto. Un «dire quasi la stessa cosa» che, nel caso del tradurre, giunge al suo modello migliore con la traduzione della poesia, in cui ciascuna parola è solitaria e irripetibile, scritta dal poeta rifuggendo dai sinonimi. Quanto di più lontano, dunque, la traduzione, dal trasferimento di segni e significati tra due codici, come nelle pretese delle cosiddette «macchine per tradurre». Bonnefoy presenta in questo libro la teoria derivante da questo nucleo, accompagnandola con la descrizione di importanti casi concreti di traduzioni da lui condotte a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo. «Tradurre, che è capire, significa allora passare per il non-detto quasi detto, garantendo all’opera di accedere oggi almeno a una parte di quello che avrebbe voluto dire: a un po’ più della sua verità. La traduzione non deve essere il calco della letteralità della poesia ma l’ascolto del desiderio di chi la scrisse, e il compimento di quel desiderio in un testo rimasto suo. Essa deve udire un richiamo, e dargli risposta. Deve aiutare l’opera nel suo sforzo più difficile, che fu sempre, per la trasgressione poetica, di percepire ciò che stava compiendo; ed è allora illuminarla, mostrando di più la sua inscrizione nella storia».
curatela (libro)
2005
Scotto, Fabio
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