La ricerca muove da un’analisi critica del sistema di welfare italiano e dei possibili interventi di ricalibratura proattiva per rispondere non tanto a logiche di contenimento di costi quanto e soprattutto per promuovere una prospettiva qualitativa che ha ‘nella mente e nel cuore’ la persona e le sue competenze (Bertagna, 2010). Si riflette sul possibile passaggio da un welfare “hobbesiano” che tutela paternalisticamente la persona dai rischi sociali a un welfare capacitante che sfida fraternamente la persona all’attivazione (Pioggia, 2017; Bruni, 2010; Nussbaum, 2012). Può l’attore statale essere chiamato a mutare il suo ruolo da erogatore monopolista (o quasi), a soggetto che promuove e coordina gli interventi sociali degli operatori delle organizzazioni e delle reti sociali? La modalità di intervento nell’agire sociale passerebbe così da un’erogazione di un servizio a una co-produzione di benessere e integrazione sociale (Bifulco, 2015). Il professionista, in un quadro sussidiariamente orientato, potrebbe essere chiamato a mutare il suo intervento da una prospettiva solo “per” la persona ad una “con” la persona coinvolgendola sin dalla definizione del piano individuale (Orlandini, Rago, Venturi, 2014). Il welfare diventerebbe una costruzione locale, la più prossima alla persona, i luoghi privilegiati di intervento sarebbero la dimora del soggetto protagonista e gli spazi sociali della comunità (si pensi al programma “Viva gli anziani” della Comunità di Sant’Egidio). In questo modo si potrebbe promuovere la creazione e l’espressione di un bene relazionale maturato dalla persona protagonista e dalle reti sociali di cui fa parte? Può compiersi così il passaggio cruciale da un welfare state che risponde ai bisogni delle persone con formule assistenzialistiche a un welfare capacitante che ne promuove le risorse (Zamagni, 2014)? Si può realizzare un intervento sociale che agisca non solo protezione ma anche promozione sociale, il quale sostenga la persona in una iniziativa reciprocante in favore della comunità e di se stessa al fine di favorire la vita buona di tutti e di ciascuno? (Villa, 2014). Posto questo scenario ci si chiede se e come è possibile evitare che la promozione della vocazione sussidiaria di una comunità possa comportare l’incremento delle disparità di offerta tra territori a cui conseguirebbe l’aumento delle diseguaglianze (Kazepov, Barberis, 2013). É possibile ed è bene integrare un welfare minimo dello Stato centrale con il welfare comunitario? Si può contemperare universalità e sussidiarietà? I policy maker italiani sembrano promuovere l’integrazione tra benefit in cash e benefit in kind (si pensi al Reddito d’Inclusione). Se è vero che la territorializzazione del welfare può generare disparità di offerta è pur vero che essa sfida le comunità locali ad essere creative e innovative nel disegno e nella realizzazione di interventi sociali (Becchetti, Pisani, Semplici, 2018). L’innovatività delle buone pratiche locali andrebbe riconosciuta e promossa. É importante realizzare nel contesto locale i livelli essenziali di assistenza (welfare minimo statuale) e soprattutto promuovere una circolarità sussidiaria che faccia “leva” sulla responsabilità sociale delle persone, delle reti, delle Organizzazioni a Movente Ideale e dell’Ente locale (Bruni, Zamagni, 2004). Così si potrebbe realizzare una sussidiarietà solidale e socialmente innovativa evitando un eccessivo intervento livellatore dello Stato centrale e al contempo inverare i principi di universalità ed equità di trattamento.

(2018). Il welfare di comunità come dispositivo generativo . Retrieved from http://hdl.handle.net/10446/134924

Il welfare di comunità come dispositivo generativo

Di Sirio, Alfredo
2018-01-01

Abstract

La ricerca muove da un’analisi critica del sistema di welfare italiano e dei possibili interventi di ricalibratura proattiva per rispondere non tanto a logiche di contenimento di costi quanto e soprattutto per promuovere una prospettiva qualitativa che ha ‘nella mente e nel cuore’ la persona e le sue competenze (Bertagna, 2010). Si riflette sul possibile passaggio da un welfare “hobbesiano” che tutela paternalisticamente la persona dai rischi sociali a un welfare capacitante che sfida fraternamente la persona all’attivazione (Pioggia, 2017; Bruni, 2010; Nussbaum, 2012). Può l’attore statale essere chiamato a mutare il suo ruolo da erogatore monopolista (o quasi), a soggetto che promuove e coordina gli interventi sociali degli operatori delle organizzazioni e delle reti sociali? La modalità di intervento nell’agire sociale passerebbe così da un’erogazione di un servizio a una co-produzione di benessere e integrazione sociale (Bifulco, 2015). Il professionista, in un quadro sussidiariamente orientato, potrebbe essere chiamato a mutare il suo intervento da una prospettiva solo “per” la persona ad una “con” la persona coinvolgendola sin dalla definizione del piano individuale (Orlandini, Rago, Venturi, 2014). Il welfare diventerebbe una costruzione locale, la più prossima alla persona, i luoghi privilegiati di intervento sarebbero la dimora del soggetto protagonista e gli spazi sociali della comunità (si pensi al programma “Viva gli anziani” della Comunità di Sant’Egidio). In questo modo si potrebbe promuovere la creazione e l’espressione di un bene relazionale maturato dalla persona protagonista e dalle reti sociali di cui fa parte? Può compiersi così il passaggio cruciale da un welfare state che risponde ai bisogni delle persone con formule assistenzialistiche a un welfare capacitante che ne promuove le risorse (Zamagni, 2014)? Si può realizzare un intervento sociale che agisca non solo protezione ma anche promozione sociale, il quale sostenga la persona in una iniziativa reciprocante in favore della comunità e di se stessa al fine di favorire la vita buona di tutti e di ciascuno? (Villa, 2014). Posto questo scenario ci si chiede se e come è possibile evitare che la promozione della vocazione sussidiaria di una comunità possa comportare l’incremento delle disparità di offerta tra territori a cui conseguirebbe l’aumento delle diseguaglianze (Kazepov, Barberis, 2013). É possibile ed è bene integrare un welfare minimo dello Stato centrale con il welfare comunitario? Si può contemperare universalità e sussidiarietà? I policy maker italiani sembrano promuovere l’integrazione tra benefit in cash e benefit in kind (si pensi al Reddito d’Inclusione). Se è vero che la territorializzazione del welfare può generare disparità di offerta è pur vero che essa sfida le comunità locali ad essere creative e innovative nel disegno e nella realizzazione di interventi sociali (Becchetti, Pisani, Semplici, 2018). L’innovatività delle buone pratiche locali andrebbe riconosciuta e promossa. É importante realizzare nel contesto locale i livelli essenziali di assistenza (welfare minimo statuale) e soprattutto promuovere una circolarità sussidiaria che faccia “leva” sulla responsabilità sociale delle persone, delle reti, delle Organizzazioni a Movente Ideale e dell’Ente locale (Bruni, Zamagni, 2004). Così si potrebbe realizzare una sussidiarietà solidale e socialmente innovativa evitando un eccessivo intervento livellatore dello Stato centrale e al contempo inverare i principi di universalità ed equità di trattamento.
2018
DI SIRIO, Alfredo
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