Che cosa esattamente, oggi, può dirsi camp? Esistono oggetti, segni, azioni, relazioni o storie in sé camp? E ancora: quando e come è nato il camp? Bisogna (magari felicemente) rassegnarsi al fatto che l’eterogeneità connaturata a un fenomeno da sempre este-so alle sfere socioculturali ed estetiche più disparate – dall’aristocrazia più sfrenata alla commovente piccola borghesia fino alla sottocultura più aggressiva, dalla letteratura al cinema all’intrattenimento popolare – rende la domanda mal posta? Perché non tentare invece di disegnare, appunto, una definizione semiologica e una storia culturale attorno a quell’arabesco contorto, spesso sfuggente, che accomuna nella nostra percezione figure e strategie identitarie come quelle di Madonna e Oscar Wilde, Greta Garbo e Don Chisciotte, Petronio e Judy Garland, Fassbinder e i Velvet Underground, Gore Vidal e David LaChapelle, Coco Chanel e Kenneth Anger, Mae West e Bette Davis? Poliedrico, molteplice, e mimetico della contraddittorietà che descrive – di volta in volta Low o High, naif o deliberato, straight o queer – il camp invoca insomma qualcosa in più che non un semplice arbitrium elegantiarum: si mostra, anzi, nel suo essere faccenda a un tempo estetica, di sensibilità e di gusto, ma anche, e ancor più, di discorso, di tensione fra egemonia e dissenso, di appropriazione fra codici e spazi culturale, di negoziazione (anche) economica. Perché paradossalmente, proprio nel suo essere esuberante, infedele, ‘obliquo’, trasgressivo e perverso, il camp non coincide con una proprietà oggettuale, circoscrivibile e grammaticalizzabile, ma con una relazione più ampia – articolata, indiscreta – fra tutte queste istanze: una relazione che merita di esser rigorosamente definita, nelle sue origini culturali e nelle sue raffinate architetture morfologiche e concettuali.

Per una definizione del discorso "Camp"

CLETO, Fabio
2006-01-01

Abstract

Che cosa esattamente, oggi, può dirsi camp? Esistono oggetti, segni, azioni, relazioni o storie in sé camp? E ancora: quando e come è nato il camp? Bisogna (magari felicemente) rassegnarsi al fatto che l’eterogeneità connaturata a un fenomeno da sempre este-so alle sfere socioculturali ed estetiche più disparate – dall’aristocrazia più sfrenata alla commovente piccola borghesia fino alla sottocultura più aggressiva, dalla letteratura al cinema all’intrattenimento popolare – rende la domanda mal posta? Perché non tentare invece di disegnare, appunto, una definizione semiologica e una storia culturale attorno a quell’arabesco contorto, spesso sfuggente, che accomuna nella nostra percezione figure e strategie identitarie come quelle di Madonna e Oscar Wilde, Greta Garbo e Don Chisciotte, Petronio e Judy Garland, Fassbinder e i Velvet Underground, Gore Vidal e David LaChapelle, Coco Chanel e Kenneth Anger, Mae West e Bette Davis? Poliedrico, molteplice, e mimetico della contraddittorietà che descrive – di volta in volta Low o High, naif o deliberato, straight o queer – il camp invoca insomma qualcosa in più che non un semplice arbitrium elegantiarum: si mostra, anzi, nel suo essere faccenda a un tempo estetica, di sensibilità e di gusto, ma anche, e ancor più, di discorso, di tensione fra egemonia e dissenso, di appropriazione fra codici e spazi culturale, di negoziazione (anche) economica. Perché paradossalmente, proprio nel suo essere esuberante, infedele, ‘obliquo’, trasgressivo e perverso, il camp non coincide con una proprietà oggettuale, circoscrivibile e grammaticalizzabile, ma con una relazione più ampia – articolata, indiscreta – fra tutte queste istanze: una relazione che merita di esser rigorosamente definita, nelle sue origini culturali e nelle sue raffinate architetture morfologiche e concettuali.
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2006
Cleto, Fabio
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