Se fosse possibile azzardare un paragone musicale quando si parla dei tanti contributi critici che – nel corso del tempo – sono stati generati dall’opera di Jacques Derrida, si dovrebbe ricorrere necessariamente al contrappunto, vale a dire al rapporto tra voci che sono indipendenti rispetto al ritmo e interdipendenti rispetto all’armonia. Il 12 e il 13 dicembre 2006, presso l’Università degli Studi di Bergamo, si è svolto un convegno che ha messo alla prova la verità di tale polifonia e ha sviluppato linee di fuga e passaggi tonali a partire da quattro parole – scrittura, decostruzione, ospitalità, responsabilità – che, come note su un pentagramma, scandiscono il percorso filosofico di uno dei maestri più importanti del Novecento. Consapevoli del fatto che Derrida non amava celebrazioni o monumentalizzazioni, gli studiosi che sono intervenuti (i quali, tra l’altro, appartengono a generazioni diverse), non si sono chiesti soltanto che cosa Derrida può ancora darci, ma hanno cercato di comprendere in che senso tutto ciò che lo concerne si gioca ora, avviene ora, vale a dire nella piena corresponsabilità del suo gesto di lettura. Non si tratta quindi di domandare a o su Derrida, ma di domandare con lui. Il nome che circola fra le quattro parole derridiane oggetto del convegno può essere espresso, nel linguaggio tradizionale dell’Occidente, con il termine libertà: accoglienza che ospita originariamente la natura dell’io. Questa nozione di libertà costituisce una sorta di divisione non distruttiva, ma rimandante a un’origine altra, tutt’altra, ma insieme costitutiva dell’io. È dunque nello scarto tra divisione e origine che, come recita il titolo del volume, si può partire da Derrida, vale a dire inventarlo, trovarlo e generarlo nel gesto, libero, di una ferita. Perché la ferita è ciò che sempre si associa all’avvenimento, ciò senza di cui un avvenimento sarebbe impossibile.

A partire da Jacques Derrida

DALMASSO, Gianfranco
2007-01-01

Abstract

Se fosse possibile azzardare un paragone musicale quando si parla dei tanti contributi critici che – nel corso del tempo – sono stati generati dall’opera di Jacques Derrida, si dovrebbe ricorrere necessariamente al contrappunto, vale a dire al rapporto tra voci che sono indipendenti rispetto al ritmo e interdipendenti rispetto all’armonia. Il 12 e il 13 dicembre 2006, presso l’Università degli Studi di Bergamo, si è svolto un convegno che ha messo alla prova la verità di tale polifonia e ha sviluppato linee di fuga e passaggi tonali a partire da quattro parole – scrittura, decostruzione, ospitalità, responsabilità – che, come note su un pentagramma, scandiscono il percorso filosofico di uno dei maestri più importanti del Novecento. Consapevoli del fatto che Derrida non amava celebrazioni o monumentalizzazioni, gli studiosi che sono intervenuti (i quali, tra l’altro, appartengono a generazioni diverse), non si sono chiesti soltanto che cosa Derrida può ancora darci, ma hanno cercato di comprendere in che senso tutto ciò che lo concerne si gioca ora, avviene ora, vale a dire nella piena corresponsabilità del suo gesto di lettura. Non si tratta quindi di domandare a o su Derrida, ma di domandare con lui. Il nome che circola fra le quattro parole derridiane oggetto del convegno può essere espresso, nel linguaggio tradizionale dell’Occidente, con il termine libertà: accoglienza che ospita originariamente la natura dell’io. Questa nozione di libertà costituisce una sorta di divisione non distruttiva, ma rimandante a un’origine altra, tutt’altra, ma insieme costitutiva dell’io. È dunque nello scarto tra divisione e origine che, come recita il titolo del volume, si può partire da Derrida, vale a dire inventarlo, trovarlo e generarlo nel gesto, libero, di una ferita. Perché la ferita è ciò che sempre si associa all’avvenimento, ciò senza di cui un avvenimento sarebbe impossibile.
curatela (libro)
2007
Dalmasso, Gianfranco
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