Come osserva Harald EGE, in Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana, saggio incluso in HIRIGOYEN, Molestie morali, Torino, 2000, 237, “il mobbing non è un fenomeno nuovo. Possiamo dire infatti che è un fenomeno vecchio come il mondo: come le antipatie, l’ambizione e l’invidia umana. Solo la sua teorizzazione come fenomeno a sé stante è relativamente recente”. Le situazioni cui si fa riferimento, parlando di mobbing, sono pertanto “non sconosciute in passato”; esse “derivano la loro importanza dall’incrociarsi con la tutela della persona”. E non stupisce il fatto che la tutela di cui quest’ultima gode sul luogo di lavoro appaia, di questi tempi, particolarmente accentuata: in Europa come negli Stati Uniti, nell’ordinamento giuridico come nel sistema sociale, il lavoro rappresenta ormai un ambito delicatissimo e di fondamentale importanza per ogni essere umano. Esso costituisce la faccia sociale di ognuno di noi, uno dei canali principali attraverso i quali si esplica la propria personalità e si attuano le proprie aspirazioni. Ma non è soltanto la dignità sociale, la personalità morale del lavoratore ad uscire malconcia dall’aggressione perpetrata dal mobber. Le conseguenze del mobbing sulla vittima sono, in realtà, assai più gravi. In primo luogo, ad essere colpita, è la salute, sia psichica che fisica. Il mobbizzato può arrivare a sviluppare malattie gravissime, anche di natura tumorale. In alcuni casi, l’epilogo è ancor più tragico, è il suicidio della vittima. L’esercizio delle “pratiche mobbizzanti”, alla fine, danneggia anche l’azienda, quando non addirittura, l’intera società. Rileva MONATERI, Il costo sociale del mobbing, in MONATERI, BONA, OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, 1 che, per la sua stessa natura, “il mobbing è inefficiente. A causa sua risorse di tempo, intelligenza, informazione vengono disperse e distrutte. Un’organizzazione in cui si instaura il mobbing è destinata al fallimento e alla dispersione. Un’ora di mobbing costa almeno quanto un’ora di lavoro produttivo, perché è una lotta sul luogo di lavoro che lo sottrae al suo fine. Più i metodi utilizzati sono subdoli, sottili e silenziosi, più sono dannosi, perché richiedono e quindi più risorse per più tempo”. È alle scienze sociali che la dottrina e la giurisprudenza si rivolgono per ottenere una nozione giuridicamente rilevante e praticamente applicabile del fenomeno. E sono le stesse sociali, a loro volta, ad avvertire l’esigenza di stabilire criteri generali di definizione, superando l’approccio analitico, che porterebbe ad una tanto puntigliosa quanto inutile elencazione di comportamenti ostili, aggressivi, vessatori, emarginanti, illeciti e discriminatori. Qualunque studio relativo al fenomeno in questione non può prescindere dal lavoro dello psicologo Heinz Leymann, ormai riconosciuto come il legittimo “padre del mobbing”. Non a caso, la definizione originaria del mobbing, quella di “terrore psicologico sul luogo di lavoro”, non è altro che la traduzione del titolo della sua opera più importante (Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann), pubblicata nel 1993 ad Amburgo. Nel nostro Paese, è uno studioso tedesco, Harald Ege, a fornire le prime conoscenze in materia di mobbing. Ege, che è psicologo del lavoro, autore di varie opere divulgative sul tema nonché fondatore e presidente di PRIMA, (Associazione Italiana contro il Mobbing e lo Stress Psicosociale), ha inizialmente utilizzato, per il mobbing, la tradizionale definizione, risalente appunto a Leymann, di “terrore psicologico sul posto di lavoro”, di “comunicazione negativa in ambito lavorativo” o di “routine del conflitto”. Altrettanto in voga, a proposito di mobbing, è la definizione di “molestia morale”, elaborata dalla studiosa francese Marie-France Hirigoyen. Tuttavia, Ege non concorda con questa terminologia, ritenendola riduttiva ed incapace di fornire un’idea esatta della devastante portata del fenomeno. Proprio per sottolinearne la capacità distruttiva, Ege ha recentemente paragonato il mobbing ad una guerra, utilizzando le indicazioni fornite, a tale proposito, da von Clausewitz nell’opera Vom Kriege, del 1832, e adattandole alle sue ricerche. Da questo punto di vista, rileva EGE in Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, Milano, 2001, 33: “il Mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psico-fisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato”. Da ultimo, il medesimo Autore (La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, 39) ha elaborato del mobbing questa definizione, contenente “i sette criteri fondamentali” per l’individuazione del fenomeno (ambiente lavorativo, dislivello tra antagonisti, tipo di azioni, durata, frequenza, intento persecutorio e andamento in fasi successive): “Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui uno o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”. L’elemento più interessante di tale definizione è rappresentato proprio dall’ultimo, l’andamento in fase successive. Di certo, il mobbing non è una situazione stabile, ma un processo in continua evoluzione, che si sviluppa attraverso passaggi determinati. Ma il modello originario, costruito da Leymann e caratterizzato da quattro fasi, pur risultando perfettamente applicabile alla realtà scandinava e tedesca, se riferito alla situazione italiana rivelava una serie di vuoti ed imprecisioni. Harald Ege (I numeri del Mobbing. La prima ricerca italiana, Bologna, 1998, 8 ss.) ritenne quindi di dovervi apportare delle modifiche: ne risultò il cosiddetto “modello italiano Ege”, composto di sei fasi (e non più solo quattro), cui va aggiunta una pre-fase, chiamata “condizione zero”, che non è ancora mobbing ma che ne costituisce “l’indispensabile presupposto”. La condizione zero. Osserva Ege che, a differenza di quanto accade nell’Europa del Nord, il clima aziendale che si respira in una media impresa italiana è percorso da continue tensioni, ora sotterranee e latenti ed ora manifeste, che esplodono di tanto in tanto in banali diverbi, discussioni, accuse e piccole ripicche. Le radici di tale situazione affondano, probabilmente, nella difficile congiuntura economica generale, che determina un elevato tasso di disoccupazione; oppure è il carattere stesso del lavoratore italiano medio, più individualista dei suoi colleghi svedesi o tedeschi, ed il suo desiderio di emergere, a provocare una simile tensione. Quale che ne siano le cause, l’effetto finale è la presenza, all’interno delle aziende, di una conflittualità “fisiologica”, che i dipendenti generalmente accettano come normale. Si tratta di una conflittualità generalizzata, che non costituisce ancora mobbing, posto che gli attori del dramma desiderano solo elevarsi sugli altri, senza che vi sia la volontà di distruggere un soggetto particolare; inoltre, il conflitto sorge e si sviluppa in relazione a problemi di lavoro, senza toccare argomenti personali. Tuttavia, la condizione zero rappresenta un terreno fertile per lo sviluppo del mobbing: da una conflittualità generalizzata, un bellum omnium contra omnes, ad uno scontro incanalato verso una persona determinata, o un gruppo determinato di persone, il passo è breve. Con la prima fase, il conflitto generalizzato e fisiologico trova il suo obiettivo e si dirige verso una determinata vittima o un gruppo di vittime determinate; allo stesso tempo, lo scontro non riguarda più esclusivamente questioni lavorative, ma sempre più frequentemente coinvolge aspetti della vita privata. Nella seconda fase, la vittima comincia a percepire un inasprimento nei rapporti con i colleghi o i superiori e ad avvertire un crescente senso di disagio: essa è ormai bersagliata da veri e propri attacchi. Nella terza fase la sofferenza psicologica si traduce in sintomi fisici: la vittima manifesta i primi problemi di salute, soffre di insonnia, ha difficoltà digestive e così via. Iniziano le assenze per malattia mentre, contemporaneamente, il rendimento lavorativo cala. È a questo punto, ossia nella quarta fase, che entra in gioco l’amministrazione del personale (o il vertice aziendale) la quale, notando le frequenti assenze e la diminuita efficienza del mobbizzato, adotta la soluzione più facile ed ingiusta: invece di intervenire sui mobber, per metter fine ai loro attacchi, si accanisce sul soggetto più debole e già in difficoltà, che viene sottoposto a controlli, subisce richiami, etc. Così, da un lato il mobbing diventa di pubblico dominio; dall’altro, cresce nel mobbizzato la sensazione di impotenza e di disagio. Nella quinta fase la situazione diventa drammatica: i sintomi psicosomatici si aggravano seriamente; il mobbizzato, ormai in piena depressione, è costretto ad assumere psicofarmaci e a ricorrere a terapie, che non producono gli effetti sperati, poiché il problema sul lavoro non soltanto rimane, ma aumenta di dimensioni. Agli attacchi da parte dei mobber si sommano gli errori e gli abusi da parte dell’amministrazione che non lesina rimproveri e richiami, nega ferie e permessi. Si giunge infine all’epilogo, alla sesta fase, in cui la vittima, sopraffatta dagli avversari, abbandona il posto di lavoro, volontariamente, presentando le dimissioni o facendo richiesta di prepensionamento, oppure perché costretta da licenziamento; non sono esclusi, purtroppo, esiti anche traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l’omicidio o la vendetta nei confronti del mobber. In molti casi, poi, gli effetti del mobbing non si limitano alla sfera professionale. Il mobbing “all’italiana” presenta infatti un’ulteriore particolarità, di cui non vi è traccia negli altri Paesi. Questo fenomeno è chiamato “doppio mobbing” e sarebbe una conseguenza del ruolo, centrale, che la famiglia riveste in Italia. La famiglia italiana è molto più coinvolta e interessata ai problemi anche professionali dei suoi membri. La vittima di una situazione di mobbing si rivolgerà dunque, per cercare aiuto e consiglio, a casa: qui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata lavorativa passata sotto i colpi del mobber. E dapprima la grande famiglia italiana si schiererà al fianco del suo componente, risanandone le ferite, fornendogli tranquillità, ascolto, protezione. Tutta la negatività che il mobbizzato assorbe sul luogo di lavoro si scaricherà sulla famiglia; ma la famiglia, almeno inizialmente, possedendo maggiori risorse e capacità di ripresa del singolo, resisterà e parerà i colpi. Ma il mobbing non è un normale conflitto, che inizia e si conclude in tempi ridotti. Il Mobbing è un lento stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni che perdura inesorabilmente nel tempo, e proprio nella lunga durata ha la sua forza devastante. Alla fine, anche la famiglia esaurisce le sua riserve e, a questo punto, per il mobbizzato non c’è più scampo. La famiglia protettrice e generosa improvvisamente cambia atteggiamento, cessa di sostenerlo e comincia invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing, di cui il mobbizzato è l’innocente portatore. Egli è diventato una minaccia per l’integrità e la salute della famiglia ed essa, costretta a difendersi, lo respinge. Ed ecco il significato del termine coniato da EGE (Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., 240) “il doppio mobbing indica la situazione in cui la vittima si viene a trovare in questo caso: bersagliata come prima sul posto di lavoro, ma ora anche privata della comprensione e dell’aiuto della famiglia. Il mobbing a cui è sottoposto è quindi raddoppiato”. Non stupisce dunque che il problema del mobbing sia all’attenzione di numerosi e pregevoli studi in tutta Europa e nel mondo, che anche i legislatori di vari paesi europei abbiano incominciato ad affrontare il problema, al fine di conferirgli una veste giuridica ed al fine di creare gli strumenti più idonei per combatterlo. Puntualmente, la Risoluzione del Parlamento Europeo n. A5 – 0283/20001, 20 settembre 20001, n. 10 esorta gli Stati membri “a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto del lavoro, nonché a verificare e a uniformare la definizione della fattispecie del ‘mobbing’”. Rispettosamente, alcuni Stati membri dell’Unione (la Francia, per citarne uno), hanno accolto l’invito. In Italia, tuttavia, il fenomeno del mobbing non trova ancora una specifica disciplina legislativa. Non sono mancati, è vero, disegni e progetti di legge che, dal 1996 sino ad oggi, si sono susseguiti numerosi. E, pressoché tutti, si sono preoccupati di predisporre, accanto agli strumenti di tutela civilistica, una protezione di carattere penale. Ma giudizio su di essi, alla luce di un’analisi complessiva, si rivela, tutto sommato, negativo. Tutti presentano gli stessi difetti: norme ridondanti o generiche, terminologia atecnica, tipo di pene e misura dei limiti edittali individuati in assenza di una chiara logica sanzionatoria; tutti denunciano, purtroppo, uno scarso sapere dogmatico e politico-criminale da parte dei compilatori. L’assenza di una fattispecie ad hoc non impedisce alla giurisprudenza di sanzionare penalmente le condotte mobbizzanti, applicando le disposizioni previste dal codice a tutela della persona. A condizione, s’intende, che tali comportamenti ne realizzino integralmente tutti gli estremi. Il problema è, tuttavia, quello di capire se queste forme di tutela, di carattere più generale e “frammentario” si rivelino sufficienti per sanzionare le condotte illecite particolarmente lesive dei diritti fondamentali della persona umana, o, al contrario, l’introduzione di nuove norme specifiche, in grado di fornire, del problema, una valutazione ed una soluzione unitaria, risulti, di fronte alla gravità del fenomeno, assolutamente necessaria. Da un punto di vista penalistico, il caso del mobbing è stato trattato da poche decisioni. Si ricordano, in proposito, due sentenze, pronunciate l’una dalla Cassazione il 22 gennaio 2001 e l’altra dal Tribunale di Taranto il 7 marzo 2002, un’ordinanza di rinvio a giudizio del g.i.p. di Busto Arsizio (18 maggio 2004) e una sentenza di condanna in seguito a giudizio abbreviato pronunciata dal g.i.p. di Torino il 3 maggio 2005. Ad un’analisi più accurata, i casi esaminati risultano suddivisibili in due categorie. In tutte le situazioni, la forma base del conflitto permane identica: una o più vittime da una parte, cui si contrappongono i persecutori. Ma, mentre nella vicenda descritta dal g.i.p. di Busto Arsizio, il conflitto si presenta nella sua veste pura, costituisce cioè un’ipotesi di mobbing “non politico”, in cui il mobbing viene praticato per il gusto dello stesso mobbing, negli altri casi la struttura dell’aggressione assume caratteristiche assai più complicate. In effetti, tanto nella vicenda decisa dalla Cassazione, quanto in quella risolta dal g.i.p. torinese e, soprattutto, nel caso di Taranto, l’azione del mobber persegue una precisa linea politica, che coincide con quella dell’azienda. Siamo qui di fronte ad un vero e proprio bossing, ossia ad un mobbing perpetrato dall’altro con caratteristiche e contenuti di strategia aziendale. Val la pena di ricordare, a proposito di bossing, le osservazioni di EGE, riportate in Mobbing: conoscerlo per vincerlo, Milano, 2002, 55: “Ci sono aziende che perseguono deliberatamente una politica di Bossing per terrorizzare i dipendenti ed indurli così ad accettare lavori umilianti, ritmi particolarmente sostenuti o paghe irrisorie”. “Altre volte”, prosegue EGE, “il Bossing viene utilizzato come una vera e propria strategia di riduzione del personale: si semina il panico e si crea appositamente un clima organizzativo pessimo, in modo da spingere i dipendenti alle dimissioni”. Ebbene, con riferimento ai casi di “mobbing non politico”, si ha l’impressione che gli strumenti sanzionatori già disponibili, apprestati dal codice penale e dalle leggi complementari, siano in grado fornire un’adeguata tutela. Le norme che puniscono i maltrattamenti (eventualmente aggravati, ai sensi del 2° comma, che prevede limiti edittali compresi tra quattro e otto anni qualora “dal fatto deriva una lesione personale”,) e la violenza privata (oltre che l’abuso d’ufficio) non sono, infatti, le sole applicabili alle situazioni sopra descritte. Le condotte mobbizzanti potrebbero rilevare anche ai sensi di altre fattispecie: si pensi alle disposizioni di cui agli artt. 582 ss. e 589 c.p. (lesioni personali, dolose o colpose, a seconda dell’elemento soggettivo concretamente accertato, nel caso in cui, come spesso accade, l’azione del mobber abbia arrecato alla vittima un pregiudizio fisico o psichico), 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione, qualora il mobbing si estrinsechi attraverso comportamenti offensivi e denigratori); 629 c.p. (estorsione); 609bis c.p. (violenza sessuale). Infine, nel malaugurato caso in cui alla condotta segua il suicidio o il tentato suicidio della vittima, a venire in considerazione sarebbero o l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p., a condizione il soggetto attivo fosse in dolo, almeno eventuale) o, quanto meno, il maltrattamento aggravato dalla morte (art. 572, 2° comma c.p.). In ogni caso sarebbe poi applicabile l’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11 c.p., per avere l’autore commesso il fatto “con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità”. Sussistono poi, al di fuori del codice, ulteriori norme penali, volte alla repressione di condotte discriminatorie lesive della dignità e della libertà del lavoratore. Si pensi, ad esempio, all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 (c.d. “Statuto dei lavoratori”), modificato dall’art. 13, l. n. 903 del 1977 e dall’art. 4 d. lgs. n. 216 del 2003, che dichiara la nullità di qualsiasi patto o atto diretto, al fine di discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personale, a subordinare l’occupazione di un lavoratore oppure a licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio. Ebbene, l’art. 38 della medesima legge punisce con l’ammenda o con l’arresto la violazione di questa norma (come pure di quelle contenute agli artt. 2, 4, 5, 6, 8, volte a tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori e la libertà sindacale). Si ricordi inoltre l’art. 1, l. n. 903 del 1977, in tema di “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, per il quale “è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”: l’art. 16 di tale legge punisce l’inosservanza del divieto con l’ammenda. La questione si complica, invece, in relazione alle ipotesi di “mobbing politico”. È di fronte a questi casi che le vigenti disposizioni penali si rivelano incapaci di riflettere le peculiarità di un conflitto che, da un lato, va al di là della “normale” violenza che caratterizza la relazione tra “perverso” (in questo modo HIRIGOYEN, Molestie morali, cit., passim, definisce l’autore delle condotte mobbizzanti) e vittima e, dall’altro, supera per intensità la fisiologica contrapposizione tra datore di lavoro e lavoratore. In casi come questi, l’azienda non si limita a fornire il palcoscenico per la “recita” del mobbing, ignorando o tollerando gli abusi perpetrati dal “perverso”. Nei casi che abbiamo richiamato, l’impresa è complice del mobber, perché dal mobbing ritiene di trarre vantaggio, ed agevola l’aggressore, con azioni od omissioni; o, addirittura, ne è l’ispiratrice, che istiga o determina, è lei il vero mobber, che usa il “perverso” – persona fisica come autore mediato. Viene allora da chiedersi se, per questi casi, non sia auspicabile un mutamento di prospettiva, che porti al coinvolgimento, accanto agli imputati-persone fisiche, di altri soggetti, non tradizionali, in base a nuovi modelli di responsabilità non “puramente” o “classicamente” penale. Ci si riferisce, in proposito, alle previsioni contenute nel d.lgs. 231/2001, che ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema di responsabilità amministrativa diretta degli enti collettivi. Rapidamente, questi i presupposti per la sussistenza della responsabilità dell’ente. Il criterio di imputazione del fatto all’ente è quello della commissione del reato, da parte di date categorie di soggetti, “a vantaggio o nell’interesse” dell’ente (art. 5, 2° comma), requisito che verrebbe invece a mancare ogniqualvolta “’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi”. Le persone fisiche, autrici del fatto che può provocare la responsabilità dell’ente, sono così individuate: i soggetti “in posizione apicale” (lett. a)” ed i soggetti “sottoposti alla direzione o alla vigilanza” “di uno dei soggetti apicali (lett. b)”. Ex art. 5 si considerano in posizione apicale sia le persone “che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente”, sia coloro che ne esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, sia, ancora, coloro che svolgono queste stesse funzioni in un’unita organizzativa dell’ente dotata di autonomia finanziaria e funzionale. Più nel dettaglio, queste le condizioni richieste dal decreto per affermare la “colpevolezza” dell’ente. Ex art. 7, nel caso di reato commesso da un subalterno, l’ente risponde “quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi” connessi alle funzioni di direzione o di vigilanza proprie dei vertici. Tale inosservanza è esclusa “se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Più complessa è la disciplina dettata dall’art. 6 nel caso di fatto commesso dagli “apicali”. In presenza della condizione generale di cui all’art. 5, 2° comma, ossia dell’essere, il reato commesso, “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, quest’ultimo ne è, di regola, responsabile. A meno che non provi: 1. di aver adottato efficaci protocolli preventivi, volti ad impedire la commissione di reati, la cui applicazione ed osservanza è stata controllata da un apposito organismo istituito all’interno dell’impresa e dotato di piena autonomia, organismo che, a sua volta, non si è macchiato di omissione o negligenze; 2. che il reato è stato commesso dal vertice “eludendo fraudolentemente” i protocolli in questione. “La fattispecie di esonero è costruita in chiave di inversione dell’onere della prova”. Tuttavia, ex art. 6, 5° comma, è comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente. Insomma, come rileva DE MAGLIE (L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, 333), nel caso in cui reato sia commesso da un vertice, “si parte dal presupposto che…venga integrato il requisito della colpevolezza dell’ente; visto che fisiologicamente i vertici esprimono la politica d’impresa, si identificano pienamente nell’organizzazione”. E, in questo caso, la colpevolezza dell’ente non sarà più tanto una “colpa d’organizzazione”, quanto, piuttosto, una “colpevolezza che deriva dalle scelte di politica d’impresa”. Ora, le ipotesi di “mobbing politico” che abbiamo esaminato aderiscono perfettamente alla struttura normativa delineata dal decreto 231/2001. Tutti gli imputati, in tutti i casi analizzati, hanno agito nell’interesse/a vantaggio della loro company: gli apicali, esprimendo con la propria condotta la “filosofia dell’azienda” (o la “politica d’impresa”), i subordinati, obbedendo alle istruzioni dei vertici o approfittando del loro complice laissez-faire. Acutamente osserva HIRIGOYEN (Molestie morali, cit., 87 e 91) che, in situazioni come quelle descritte, in cui il mobbing è espressione della filosofia dell’impresa o della sua cattiva organizzazione, “è quest’ultima a dover trovare una soluzione perché, se c’è molestia, vuol dire che lascia fare” (quando non, addirittura “incoraggia i metodi perversi”). “C’è sempre, in questo processo, un momento in cui l’azienda avrebbe potuto trovare delle soluzioni e intervenire”.
Mobbing e diritto penale
SZEGO, Alessandra
2007-01-01
Abstract
Come osserva Harald EGE, in Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana, saggio incluso in HIRIGOYEN, Molestie morali, Torino, 2000, 237, “il mobbing non è un fenomeno nuovo. Possiamo dire infatti che è un fenomeno vecchio come il mondo: come le antipatie, l’ambizione e l’invidia umana. Solo la sua teorizzazione come fenomeno a sé stante è relativamente recente”. Le situazioni cui si fa riferimento, parlando di mobbing, sono pertanto “non sconosciute in passato”; esse “derivano la loro importanza dall’incrociarsi con la tutela della persona”. E non stupisce il fatto che la tutela di cui quest’ultima gode sul luogo di lavoro appaia, di questi tempi, particolarmente accentuata: in Europa come negli Stati Uniti, nell’ordinamento giuridico come nel sistema sociale, il lavoro rappresenta ormai un ambito delicatissimo e di fondamentale importanza per ogni essere umano. Esso costituisce la faccia sociale di ognuno di noi, uno dei canali principali attraverso i quali si esplica la propria personalità e si attuano le proprie aspirazioni. Ma non è soltanto la dignità sociale, la personalità morale del lavoratore ad uscire malconcia dall’aggressione perpetrata dal mobber. Le conseguenze del mobbing sulla vittima sono, in realtà, assai più gravi. In primo luogo, ad essere colpita, è la salute, sia psichica che fisica. Il mobbizzato può arrivare a sviluppare malattie gravissime, anche di natura tumorale. In alcuni casi, l’epilogo è ancor più tragico, è il suicidio della vittima. L’esercizio delle “pratiche mobbizzanti”, alla fine, danneggia anche l’azienda, quando non addirittura, l’intera società. Rileva MONATERI, Il costo sociale del mobbing, in MONATERI, BONA, OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, 1 che, per la sua stessa natura, “il mobbing è inefficiente. A causa sua risorse di tempo, intelligenza, informazione vengono disperse e distrutte. Un’organizzazione in cui si instaura il mobbing è destinata al fallimento e alla dispersione. Un’ora di mobbing costa almeno quanto un’ora di lavoro produttivo, perché è una lotta sul luogo di lavoro che lo sottrae al suo fine. Più i metodi utilizzati sono subdoli, sottili e silenziosi, più sono dannosi, perché richiedono e quindi più risorse per più tempo”. È alle scienze sociali che la dottrina e la giurisprudenza si rivolgono per ottenere una nozione giuridicamente rilevante e praticamente applicabile del fenomeno. E sono le stesse sociali, a loro volta, ad avvertire l’esigenza di stabilire criteri generali di definizione, superando l’approccio analitico, che porterebbe ad una tanto puntigliosa quanto inutile elencazione di comportamenti ostili, aggressivi, vessatori, emarginanti, illeciti e discriminatori. Qualunque studio relativo al fenomeno in questione non può prescindere dal lavoro dello psicologo Heinz Leymann, ormai riconosciuto come il legittimo “padre del mobbing”. Non a caso, la definizione originaria del mobbing, quella di “terrore psicologico sul luogo di lavoro”, non è altro che la traduzione del titolo della sua opera più importante (Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann), pubblicata nel 1993 ad Amburgo. Nel nostro Paese, è uno studioso tedesco, Harald Ege, a fornire le prime conoscenze in materia di mobbing. Ege, che è psicologo del lavoro, autore di varie opere divulgative sul tema nonché fondatore e presidente di PRIMA, (Associazione Italiana contro il Mobbing e lo Stress Psicosociale), ha inizialmente utilizzato, per il mobbing, la tradizionale definizione, risalente appunto a Leymann, di “terrore psicologico sul posto di lavoro”, di “comunicazione negativa in ambito lavorativo” o di “routine del conflitto”. Altrettanto in voga, a proposito di mobbing, è la definizione di “molestia morale”, elaborata dalla studiosa francese Marie-France Hirigoyen. Tuttavia, Ege non concorda con questa terminologia, ritenendola riduttiva ed incapace di fornire un’idea esatta della devastante portata del fenomeno. Proprio per sottolinearne la capacità distruttiva, Ege ha recentemente paragonato il mobbing ad una guerra, utilizzando le indicazioni fornite, a tale proposito, da von Clausewitz nell’opera Vom Kriege, del 1832, e adattandole alle sue ricerche. Da questo punto di vista, rileva EGE in Mobbing. Conoscerlo per vincerlo, Milano, 2001, 33: “il Mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psico-fisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato”. Da ultimo, il medesimo Autore (La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, 39) ha elaborato del mobbing questa definizione, contenente “i sette criteri fondamentali” per l’individuazione del fenomeno (ambiente lavorativo, dislivello tra antagonisti, tipo di azioni, durata, frequenza, intento persecutorio e andamento in fasi successive): “Il Mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui uno o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”. L’elemento più interessante di tale definizione è rappresentato proprio dall’ultimo, l’andamento in fase successive. Di certo, il mobbing non è una situazione stabile, ma un processo in continua evoluzione, che si sviluppa attraverso passaggi determinati. Ma il modello originario, costruito da Leymann e caratterizzato da quattro fasi, pur risultando perfettamente applicabile alla realtà scandinava e tedesca, se riferito alla situazione italiana rivelava una serie di vuoti ed imprecisioni. Harald Ege (I numeri del Mobbing. La prima ricerca italiana, Bologna, 1998, 8 ss.) ritenne quindi di dovervi apportare delle modifiche: ne risultò il cosiddetto “modello italiano Ege”, composto di sei fasi (e non più solo quattro), cui va aggiunta una pre-fase, chiamata “condizione zero”, che non è ancora mobbing ma che ne costituisce “l’indispensabile presupposto”. La condizione zero. Osserva Ege che, a differenza di quanto accade nell’Europa del Nord, il clima aziendale che si respira in una media impresa italiana è percorso da continue tensioni, ora sotterranee e latenti ed ora manifeste, che esplodono di tanto in tanto in banali diverbi, discussioni, accuse e piccole ripicche. Le radici di tale situazione affondano, probabilmente, nella difficile congiuntura economica generale, che determina un elevato tasso di disoccupazione; oppure è il carattere stesso del lavoratore italiano medio, più individualista dei suoi colleghi svedesi o tedeschi, ed il suo desiderio di emergere, a provocare una simile tensione. Quale che ne siano le cause, l’effetto finale è la presenza, all’interno delle aziende, di una conflittualità “fisiologica”, che i dipendenti generalmente accettano come normale. Si tratta di una conflittualità generalizzata, che non costituisce ancora mobbing, posto che gli attori del dramma desiderano solo elevarsi sugli altri, senza che vi sia la volontà di distruggere un soggetto particolare; inoltre, il conflitto sorge e si sviluppa in relazione a problemi di lavoro, senza toccare argomenti personali. Tuttavia, la condizione zero rappresenta un terreno fertile per lo sviluppo del mobbing: da una conflittualità generalizzata, un bellum omnium contra omnes, ad uno scontro incanalato verso una persona determinata, o un gruppo determinato di persone, il passo è breve. Con la prima fase, il conflitto generalizzato e fisiologico trova il suo obiettivo e si dirige verso una determinata vittima o un gruppo di vittime determinate; allo stesso tempo, lo scontro non riguarda più esclusivamente questioni lavorative, ma sempre più frequentemente coinvolge aspetti della vita privata. Nella seconda fase, la vittima comincia a percepire un inasprimento nei rapporti con i colleghi o i superiori e ad avvertire un crescente senso di disagio: essa è ormai bersagliata da veri e propri attacchi. Nella terza fase la sofferenza psicologica si traduce in sintomi fisici: la vittima manifesta i primi problemi di salute, soffre di insonnia, ha difficoltà digestive e così via. Iniziano le assenze per malattia mentre, contemporaneamente, il rendimento lavorativo cala. È a questo punto, ossia nella quarta fase, che entra in gioco l’amministrazione del personale (o il vertice aziendale) la quale, notando le frequenti assenze e la diminuita efficienza del mobbizzato, adotta la soluzione più facile ed ingiusta: invece di intervenire sui mobber, per metter fine ai loro attacchi, si accanisce sul soggetto più debole e già in difficoltà, che viene sottoposto a controlli, subisce richiami, etc. Così, da un lato il mobbing diventa di pubblico dominio; dall’altro, cresce nel mobbizzato la sensazione di impotenza e di disagio. Nella quinta fase la situazione diventa drammatica: i sintomi psicosomatici si aggravano seriamente; il mobbizzato, ormai in piena depressione, è costretto ad assumere psicofarmaci e a ricorrere a terapie, che non producono gli effetti sperati, poiché il problema sul lavoro non soltanto rimane, ma aumenta di dimensioni. Agli attacchi da parte dei mobber si sommano gli errori e gli abusi da parte dell’amministrazione che non lesina rimproveri e richiami, nega ferie e permessi. Si giunge infine all’epilogo, alla sesta fase, in cui la vittima, sopraffatta dagli avversari, abbandona il posto di lavoro, volontariamente, presentando le dimissioni o facendo richiesta di prepensionamento, oppure perché costretta da licenziamento; non sono esclusi, purtroppo, esiti anche traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l’omicidio o la vendetta nei confronti del mobber. In molti casi, poi, gli effetti del mobbing non si limitano alla sfera professionale. Il mobbing “all’italiana” presenta infatti un’ulteriore particolarità, di cui non vi è traccia negli altri Paesi. Questo fenomeno è chiamato “doppio mobbing” e sarebbe una conseguenza del ruolo, centrale, che la famiglia riveste in Italia. La famiglia italiana è molto più coinvolta e interessata ai problemi anche professionali dei suoi membri. La vittima di una situazione di mobbing si rivolgerà dunque, per cercare aiuto e consiglio, a casa: qui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata lavorativa passata sotto i colpi del mobber. E dapprima la grande famiglia italiana si schiererà al fianco del suo componente, risanandone le ferite, fornendogli tranquillità, ascolto, protezione. Tutta la negatività che il mobbizzato assorbe sul luogo di lavoro si scaricherà sulla famiglia; ma la famiglia, almeno inizialmente, possedendo maggiori risorse e capacità di ripresa del singolo, resisterà e parerà i colpi. Ma il mobbing non è un normale conflitto, che inizia e si conclude in tempi ridotti. Il Mobbing è un lento stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni che perdura inesorabilmente nel tempo, e proprio nella lunga durata ha la sua forza devastante. Alla fine, anche la famiglia esaurisce le sua riserve e, a questo punto, per il mobbizzato non c’è più scampo. La famiglia protettrice e generosa improvvisamente cambia atteggiamento, cessa di sostenerlo e comincia invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del mobbing, di cui il mobbizzato è l’innocente portatore. Egli è diventato una minaccia per l’integrità e la salute della famiglia ed essa, costretta a difendersi, lo respinge. Ed ecco il significato del termine coniato da EGE (Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., 240) “il doppio mobbing indica la situazione in cui la vittima si viene a trovare in questo caso: bersagliata come prima sul posto di lavoro, ma ora anche privata della comprensione e dell’aiuto della famiglia. Il mobbing a cui è sottoposto è quindi raddoppiato”. Non stupisce dunque che il problema del mobbing sia all’attenzione di numerosi e pregevoli studi in tutta Europa e nel mondo, che anche i legislatori di vari paesi europei abbiano incominciato ad affrontare il problema, al fine di conferirgli una veste giuridica ed al fine di creare gli strumenti più idonei per combatterlo. Puntualmente, la Risoluzione del Parlamento Europeo n. A5 – 0283/20001, 20 settembre 20001, n. 10 esorta gli Stati membri “a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto del lavoro, nonché a verificare e a uniformare la definizione della fattispecie del ‘mobbing’”. Rispettosamente, alcuni Stati membri dell’Unione (la Francia, per citarne uno), hanno accolto l’invito. In Italia, tuttavia, il fenomeno del mobbing non trova ancora una specifica disciplina legislativa. Non sono mancati, è vero, disegni e progetti di legge che, dal 1996 sino ad oggi, si sono susseguiti numerosi. E, pressoché tutti, si sono preoccupati di predisporre, accanto agli strumenti di tutela civilistica, una protezione di carattere penale. Ma giudizio su di essi, alla luce di un’analisi complessiva, si rivela, tutto sommato, negativo. Tutti presentano gli stessi difetti: norme ridondanti o generiche, terminologia atecnica, tipo di pene e misura dei limiti edittali individuati in assenza di una chiara logica sanzionatoria; tutti denunciano, purtroppo, uno scarso sapere dogmatico e politico-criminale da parte dei compilatori. L’assenza di una fattispecie ad hoc non impedisce alla giurisprudenza di sanzionare penalmente le condotte mobbizzanti, applicando le disposizioni previste dal codice a tutela della persona. A condizione, s’intende, che tali comportamenti ne realizzino integralmente tutti gli estremi. Il problema è, tuttavia, quello di capire se queste forme di tutela, di carattere più generale e “frammentario” si rivelino sufficienti per sanzionare le condotte illecite particolarmente lesive dei diritti fondamentali della persona umana, o, al contrario, l’introduzione di nuove norme specifiche, in grado di fornire, del problema, una valutazione ed una soluzione unitaria, risulti, di fronte alla gravità del fenomeno, assolutamente necessaria. Da un punto di vista penalistico, il caso del mobbing è stato trattato da poche decisioni. Si ricordano, in proposito, due sentenze, pronunciate l’una dalla Cassazione il 22 gennaio 2001 e l’altra dal Tribunale di Taranto il 7 marzo 2002, un’ordinanza di rinvio a giudizio del g.i.p. di Busto Arsizio (18 maggio 2004) e una sentenza di condanna in seguito a giudizio abbreviato pronunciata dal g.i.p. di Torino il 3 maggio 2005. Ad un’analisi più accurata, i casi esaminati risultano suddivisibili in due categorie. In tutte le situazioni, la forma base del conflitto permane identica: una o più vittime da una parte, cui si contrappongono i persecutori. Ma, mentre nella vicenda descritta dal g.i.p. di Busto Arsizio, il conflitto si presenta nella sua veste pura, costituisce cioè un’ipotesi di mobbing “non politico”, in cui il mobbing viene praticato per il gusto dello stesso mobbing, negli altri casi la struttura dell’aggressione assume caratteristiche assai più complicate. In effetti, tanto nella vicenda decisa dalla Cassazione, quanto in quella risolta dal g.i.p. torinese e, soprattutto, nel caso di Taranto, l’azione del mobber persegue una precisa linea politica, che coincide con quella dell’azienda. Siamo qui di fronte ad un vero e proprio bossing, ossia ad un mobbing perpetrato dall’altro con caratteristiche e contenuti di strategia aziendale. Val la pena di ricordare, a proposito di bossing, le osservazioni di EGE, riportate in Mobbing: conoscerlo per vincerlo, Milano, 2002, 55: “Ci sono aziende che perseguono deliberatamente una politica di Bossing per terrorizzare i dipendenti ed indurli così ad accettare lavori umilianti, ritmi particolarmente sostenuti o paghe irrisorie”. “Altre volte”, prosegue EGE, “il Bossing viene utilizzato come una vera e propria strategia di riduzione del personale: si semina il panico e si crea appositamente un clima organizzativo pessimo, in modo da spingere i dipendenti alle dimissioni”. Ebbene, con riferimento ai casi di “mobbing non politico”, si ha l’impressione che gli strumenti sanzionatori già disponibili, apprestati dal codice penale e dalle leggi complementari, siano in grado fornire un’adeguata tutela. Le norme che puniscono i maltrattamenti (eventualmente aggravati, ai sensi del 2° comma, che prevede limiti edittali compresi tra quattro e otto anni qualora “dal fatto deriva una lesione personale”,) e la violenza privata (oltre che l’abuso d’ufficio) non sono, infatti, le sole applicabili alle situazioni sopra descritte. Le condotte mobbizzanti potrebbero rilevare anche ai sensi di altre fattispecie: si pensi alle disposizioni di cui agli artt. 582 ss. e 589 c.p. (lesioni personali, dolose o colpose, a seconda dell’elemento soggettivo concretamente accertato, nel caso in cui, come spesso accade, l’azione del mobber abbia arrecato alla vittima un pregiudizio fisico o psichico), 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione, qualora il mobbing si estrinsechi attraverso comportamenti offensivi e denigratori); 629 c.p. (estorsione); 609bis c.p. (violenza sessuale). Infine, nel malaugurato caso in cui alla condotta segua il suicidio o il tentato suicidio della vittima, a venire in considerazione sarebbero o l’istigazione al suicidio (art. 580 c.p., a condizione il soggetto attivo fosse in dolo, almeno eventuale) o, quanto meno, il maltrattamento aggravato dalla morte (art. 572, 2° comma c.p.). In ogni caso sarebbe poi applicabile l’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11 c.p., per avere l’autore commesso il fatto “con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità”. Sussistono poi, al di fuori del codice, ulteriori norme penali, volte alla repressione di condotte discriminatorie lesive della dignità e della libertà del lavoratore. Si pensi, ad esempio, all’art. 15 della l. n. 300 del 1970 (c.d. “Statuto dei lavoratori”), modificato dall’art. 13, l. n. 903 del 1977 e dall’art. 4 d. lgs. n. 216 del 2003, che dichiara la nullità di qualsiasi patto o atto diretto, al fine di discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personale, a subordinare l’occupazione di un lavoratore oppure a licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio. Ebbene, l’art. 38 della medesima legge punisce con l’ammenda o con l’arresto la violazione di questa norma (come pure di quelle contenute agli artt. 2, 4, 5, 6, 8, volte a tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori e la libertà sindacale). Si ricordi inoltre l’art. 1, l. n. 903 del 1977, in tema di “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, per il quale “è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”: l’art. 16 di tale legge punisce l’inosservanza del divieto con l’ammenda. La questione si complica, invece, in relazione alle ipotesi di “mobbing politico”. È di fronte a questi casi che le vigenti disposizioni penali si rivelano incapaci di riflettere le peculiarità di un conflitto che, da un lato, va al di là della “normale” violenza che caratterizza la relazione tra “perverso” (in questo modo HIRIGOYEN, Molestie morali, cit., passim, definisce l’autore delle condotte mobbizzanti) e vittima e, dall’altro, supera per intensità la fisiologica contrapposizione tra datore di lavoro e lavoratore. In casi come questi, l’azienda non si limita a fornire il palcoscenico per la “recita” del mobbing, ignorando o tollerando gli abusi perpetrati dal “perverso”. Nei casi che abbiamo richiamato, l’impresa è complice del mobber, perché dal mobbing ritiene di trarre vantaggio, ed agevola l’aggressore, con azioni od omissioni; o, addirittura, ne è l’ispiratrice, che istiga o determina, è lei il vero mobber, che usa il “perverso” – persona fisica come autore mediato. Viene allora da chiedersi se, per questi casi, non sia auspicabile un mutamento di prospettiva, che porti al coinvolgimento, accanto agli imputati-persone fisiche, di altri soggetti, non tradizionali, in base a nuovi modelli di responsabilità non “puramente” o “classicamente” penale. Ci si riferisce, in proposito, alle previsioni contenute nel d.lgs. 231/2001, che ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema di responsabilità amministrativa diretta degli enti collettivi. Rapidamente, questi i presupposti per la sussistenza della responsabilità dell’ente. Il criterio di imputazione del fatto all’ente è quello della commissione del reato, da parte di date categorie di soggetti, “a vantaggio o nell’interesse” dell’ente (art. 5, 2° comma), requisito che verrebbe invece a mancare ogniqualvolta “’autore abbia commesso il reato nell’esclusivo interesse proprio o di terzi”. Le persone fisiche, autrici del fatto che può provocare la responsabilità dell’ente, sono così individuate: i soggetti “in posizione apicale” (lett. a)” ed i soggetti “sottoposti alla direzione o alla vigilanza” “di uno dei soggetti apicali (lett. b)”. Ex art. 5 si considerano in posizione apicale sia le persone “che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente”, sia coloro che ne esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, sia, ancora, coloro che svolgono queste stesse funzioni in un’unita organizzativa dell’ente dotata di autonomia finanziaria e funzionale. Più nel dettaglio, queste le condizioni richieste dal decreto per affermare la “colpevolezza” dell’ente. Ex art. 7, nel caso di reato commesso da un subalterno, l’ente risponde “quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi” connessi alle funzioni di direzione o di vigilanza proprie dei vertici. Tale inosservanza è esclusa “se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Più complessa è la disciplina dettata dall’art. 6 nel caso di fatto commesso dagli “apicali”. In presenza della condizione generale di cui all’art. 5, 2° comma, ossia dell’essere, il reato commesso, “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, quest’ultimo ne è, di regola, responsabile. A meno che non provi: 1. di aver adottato efficaci protocolli preventivi, volti ad impedire la commissione di reati, la cui applicazione ed osservanza è stata controllata da un apposito organismo istituito all’interno dell’impresa e dotato di piena autonomia, organismo che, a sua volta, non si è macchiato di omissione o negligenze; 2. che il reato è stato commesso dal vertice “eludendo fraudolentemente” i protocolli in questione. “La fattispecie di esonero è costruita in chiave di inversione dell’onere della prova”. Tuttavia, ex art. 6, 5° comma, è comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente. Insomma, come rileva DE MAGLIE (L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, 333), nel caso in cui reato sia commesso da un vertice, “si parte dal presupposto che…venga integrato il requisito della colpevolezza dell’ente; visto che fisiologicamente i vertici esprimono la politica d’impresa, si identificano pienamente nell’organizzazione”. E, in questo caso, la colpevolezza dell’ente non sarà più tanto una “colpa d’organizzazione”, quanto, piuttosto, una “colpevolezza che deriva dalle scelte di politica d’impresa”. Ora, le ipotesi di “mobbing politico” che abbiamo esaminato aderiscono perfettamente alla struttura normativa delineata dal decreto 231/2001. Tutti gli imputati, in tutti i casi analizzati, hanno agito nell’interesse/a vantaggio della loro company: gli apicali, esprimendo con la propria condotta la “filosofia dell’azienda” (o la “politica d’impresa”), i subordinati, obbedendo alle istruzioni dei vertici o approfittando del loro complice laissez-faire. Acutamente osserva HIRIGOYEN (Molestie morali, cit., 87 e 91) che, in situazioni come quelle descritte, in cui il mobbing è espressione della filosofia dell’impresa o della sua cattiva organizzazione, “è quest’ultima a dover trovare una soluzione perché, se c’è molestia, vuol dire che lascia fare” (quando non, addirittura “incoraggia i metodi perversi”). “C’è sempre, in questo processo, un momento in cui l’azienda avrebbe potuto trovare delle soluzioni e intervenire”.File | Dimensione del file | Formato | |
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