Lo sfruttamento lavorativo può essere inteso come una specifica violazione della dignità degli individui che nega il celeberrimo principio Kantiano per il quale ogni essere umano non deve mai essere trattato esclusivamente come un mezzo per un fine, ma, in ogni caso, come un fine in sé. In molte disposizioni normative, la dignità umana è citata non solo in quanto parametro valutativo delle condizioni lavorative, ma soprattutto come criterio per stabilire i limiti imposti alla libertà contrattuale. Eppure, il bilanciamento di questi principi, dignità e libertà contrattuale, è senza dubbio un’operazione molto più problematica di quanto possa di primo acchito sembrare perché anche la libertà contrattuale è un principio di difficile definizione. Una possibile misura della qualità della libertà contrattuale è infatti la qualità del “consenso” che viene prestato da tutte le parti all’interno di un contratto, formale o informale che esso sia, a partire dalla valutazione della posizione soggettiva di ciascuna di esse prese singolarmente e in relazione l’una all’altra. Questa valutazione preliminare della qualità del consenso è indispensabile per definire anche le responsabilità delle conseguenze, ad esempio in termini di violazioni dei diritti, che discendono da un contratto cui tutte le parti sembrano formalmente o informalmente avere prestato il loro “consenso”, ma una si trova in una particolare “posizione di vulnerabilità”, come accade in molti casi di sfruttamento, o anche di grave sfruttamento lavorativo o di tratta. Il presente contributo è volto a dimostrare come tutti questi concetti acquistino particolare concretezza se utilizzati come lenti attraverso le quali osservare criticamente alcune forme di tratta e sfruttamento lavorativo delle contemporaneità, in particolar modo quando questi fenomeni riguardano persone che sommano in sé precise forme di vulnerabilità derivata dall’intersezione di status fragili, o meglio fragilizzati, come quelli di migrante e di donna. A questo fine, prenderò in considerazione il caso specifico dello sfruttamento lavorativo di alcune donne migranti all’interno del mercato del lavoro italiano, guardando in particolare ai fattori che producono la “posizione di vulnerabilità” delle lavoratrici provenienti dall’Est Europa e inserite nel settore del lavoro domestico e agricolo che ho incontrato e intervistato a Palermo, Venezia e Ragusa tra il 2012 e il 2015. Queste piccole e invisibili storie personali verranno assunte come una prospettiva privilegiata per guardare ad alcune delle ingiustizie sociali transazionali che attraversano il nostro mondo globalizzato, provando ad ampliare l’asfittico dibattito sulle cause e le conseguenze della mobilità umana. I casi analizzati in questo saggio dimostreranno che la condizione di molte donne migranti europee che lavorano in Italia può essere definita come una condizione di tratta ai sensi della definizione offerta dalla Direttiva 36/2011/EU. Verranno indagati i tipi di “scelte” che hanno accompagnato la migrazione delle donne qui prese in considerazione, e le forme di “consenso” da queste donne prestato alle condizioni di sfruttamento di cui sono vittime. Tale indagine sarà quindi occasione per accennare ad alcuni paradigmi teorici tra i quali provare a identificare un modello di interpretazione adeguato alle specifiche situazioni esaminate. Questa riflessione condurrà, nella sezione conclusiva di questo scritto, a interrogare le responsabilità delle violazioni dei diritti di tutte le persone coinvolte negli avvenimenti narrati.
(2018). Oltre l'irrilevanza del consenso e la colpa individuale. Posizioni di vulnerabilità e responsabilità sistemiche nello sfruttamento e nella tratta delle donne migranti . Retrieved from http://hdl.handle.net/10446/121599
Oltre l'irrilevanza del consenso e la colpa individuale. Posizioni di vulnerabilità e responsabilità sistemiche nello sfruttamento e nella tratta delle donne migranti
Sciurba, Alessandra
2018-01-01
Abstract
Lo sfruttamento lavorativo può essere inteso come una specifica violazione della dignità degli individui che nega il celeberrimo principio Kantiano per il quale ogni essere umano non deve mai essere trattato esclusivamente come un mezzo per un fine, ma, in ogni caso, come un fine in sé. In molte disposizioni normative, la dignità umana è citata non solo in quanto parametro valutativo delle condizioni lavorative, ma soprattutto come criterio per stabilire i limiti imposti alla libertà contrattuale. Eppure, il bilanciamento di questi principi, dignità e libertà contrattuale, è senza dubbio un’operazione molto più problematica di quanto possa di primo acchito sembrare perché anche la libertà contrattuale è un principio di difficile definizione. Una possibile misura della qualità della libertà contrattuale è infatti la qualità del “consenso” che viene prestato da tutte le parti all’interno di un contratto, formale o informale che esso sia, a partire dalla valutazione della posizione soggettiva di ciascuna di esse prese singolarmente e in relazione l’una all’altra. Questa valutazione preliminare della qualità del consenso è indispensabile per definire anche le responsabilità delle conseguenze, ad esempio in termini di violazioni dei diritti, che discendono da un contratto cui tutte le parti sembrano formalmente o informalmente avere prestato il loro “consenso”, ma una si trova in una particolare “posizione di vulnerabilità”, come accade in molti casi di sfruttamento, o anche di grave sfruttamento lavorativo o di tratta. Il presente contributo è volto a dimostrare come tutti questi concetti acquistino particolare concretezza se utilizzati come lenti attraverso le quali osservare criticamente alcune forme di tratta e sfruttamento lavorativo delle contemporaneità, in particolar modo quando questi fenomeni riguardano persone che sommano in sé precise forme di vulnerabilità derivata dall’intersezione di status fragili, o meglio fragilizzati, come quelli di migrante e di donna. A questo fine, prenderò in considerazione il caso specifico dello sfruttamento lavorativo di alcune donne migranti all’interno del mercato del lavoro italiano, guardando in particolare ai fattori che producono la “posizione di vulnerabilità” delle lavoratrici provenienti dall’Est Europa e inserite nel settore del lavoro domestico e agricolo che ho incontrato e intervistato a Palermo, Venezia e Ragusa tra il 2012 e il 2015. Queste piccole e invisibili storie personali verranno assunte come una prospettiva privilegiata per guardare ad alcune delle ingiustizie sociali transazionali che attraversano il nostro mondo globalizzato, provando ad ampliare l’asfittico dibattito sulle cause e le conseguenze della mobilità umana. I casi analizzati in questo saggio dimostreranno che la condizione di molte donne migranti europee che lavorano in Italia può essere definita come una condizione di tratta ai sensi della definizione offerta dalla Direttiva 36/2011/EU. Verranno indagati i tipi di “scelte” che hanno accompagnato la migrazione delle donne qui prese in considerazione, e le forme di “consenso” da queste donne prestato alle condizioni di sfruttamento di cui sono vittime. Tale indagine sarà quindi occasione per accennare ad alcuni paradigmi teorici tra i quali provare a identificare un modello di interpretazione adeguato alle specifiche situazioni esaminate. Questa riflessione condurrà, nella sezione conclusiva di questo scritto, a interrogare le responsabilità delle violazioni dei diritti di tutte le persone coinvolte negli avvenimenti narrati.File | Dimensione del file | Formato | |
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