Sulla scrittura di Ilse Aichinger. L’eloquenza di una parola a immagine del silenzio

The aesthetic analysis on the work of Ilse Aichinger consists of a triad formed by biography, writing and philosophy. If the nods to her life, at the beginning intimately connected to that of her twin Helga, need for understanding the choice of a writing that contracts until it dies, the word, in its training to disappear, is preparatory to the philosophy of non-existence. The historical context of Nazi barbarism is the framework within which the secret and hidden word is educated, in search of a form of living, perceived as foreign to the domestic and increases the inaccessible desire for safe living, mirror of a progressive distrust of language. The study delves into Aichinger's narrative experiments, which veer from the eloquence of the first novel towards the choice of a material silence, talented of giving shape to an unprecedented way of making memory: the confrontation with a pressing duty of testimony on the part of the survivors of an "ontological massacre" detonates into the desire to be silent, "until the depths burst painfully and inexorably and become word, testifying that behind all that has been said rests powerfully the unsaid". The individual is urged to prepare himself for an active forgetfulness that, while not removing evil acts, "heals memory, through the fulfillment of his mourning and through forgiveness, which accords a future to memory". The ethical gaze with which Aichinger exhorts readers to distrust their own voice proposes a reflection in rethinking the relationship with the other, stereotyped in the hostile foreigner: "experiencing illness" and becoming each the other of himself to experience distrust and suspicion, in an inner journey to discover the Other who lives in us and who worries us. The estrangement that is created appears as a dialectical territory of emotional tension, where antithetical elements coexist, ascribed to the concept of "places of longing, not topographically determinable, places without place", supported by the non-place of writing. Language thus loses the mimetic intention of translating the world and embodies the experience of the impossible: the materiality of the word clashes with its propensity to invisibility, giving rise to a writing that is less and less expressible, more and more resistant. Through the analysis of works identifying the poetological provocation as the only common thread, it is highlighted that silence is transferred from the word to life: the curtain opened in the cinema allows the childhood desire for disappearance to be realized and in the dark space, a new place to inhabit, the ego sinks in it to imagine itself elsewhere. The analysis leads to the conception of an existential exile, in which absentees, lost places and those who "remain in memories, with their ways of dying", participate in an almost oppressive way, in the heterotopia of counter-spaces, which know how to "juxtapose in a real place several normally incompatible spaces". Specularly the writing presses with a poetic and dialectical movement that is writing-silence-disappearing, capturing life in its finiteness and representing it through miniature forms. The encounter of these images with philosophy gives life to dry and marginal prose, which capture the meaning in the insignificant and are built by removing elements, rather than adding them. It is a style on the margins of every style, in which one stumbles with interest in aphorisms borrowed from Emil Cioran, which stands out as the only horizon of hope. The more mature discourse on existence, which reflects an exhaustive discourse on writing based on "Chance", "Existenz" and "Nicht Sein", possibility-existence-non-being, legitimizes the thought that not being born would be a perfect formula. Writing now responds to an existential and linguistic need, fighting "against the consumption of life": if saving life is a backward mission as complex as the choice not to come into the world, preserving the word can be distilled into a few lines, removing it from the risk of manipulation. The greatest commitment is thus realized, the one against the whole existence, which is amplified in the linguistic territory through the manifesto-affirmation: "My language is a form of anarchy". Voluntarily expelled from life and escaped from any linguistic constraint, Aichinger realizes the total coincidence between writing and existence, leaving to posterity an ethical and unprecedented legacy: that nothing remains of literature, that nothing remains of nothing. Only Nicht- Existenz as a perspective in which the escape from oneself is oriented towards the Other.

L’analisi estetologica condotta sull’opera di Ilse Aichinger si compone di una triade formata da biografia, scrittura e filosofia. Se i cenni alla sua vita, inizialmente intimamente connessa a quella della gemella Helga, servono per comprendere la scelta di una scrittura che si contrae fino a morire, la parola, nel suo allenarsi a scomparire, è propedeutica alla filosofia della non esistenza. Il contesto storico delle barbarie naziste è la cornice entro cui si educa la parola, segreta e nascosta che si pone alla ricerca di una forma dell’abitare, percepita come estranea al domestico e che amplifica il desiderio inaccessibile di un abitare sicuro, specchio di una progressiva sfiducia nei confronti del linguaggio. Lo studio approfondisce gli esperimenti narrativi di Aichinger, che virano dall’eloquenza del primo romanzo verso la scelta di un silenzio materico, capace di dare forma a un’inedita modalità di fare memoria: il confronto con un pressante dovere di testimonianza da parte dei sopravvissuti a un “massacro ontologico” detona nel desiderio di tacere, “fino a quando le profondità non scoppiano dolorosamente e inesorabilmente e diventa parola, a testimonianza che dietro tutto ciò che è stato detto riposa potentemente il non detto”. L’individuo è esortato a predisporsi a un oblio attivo che, pur non rimuovendo gli atti malvagi, “guarisce la memoria, attraverso il compimento del suo lutto e attraverso il perdono, che accorda un futuro alla memoria”. Lo sguardo etico con cui Aichinger esorta i lettori a diffidare della propria voce propone una riflessione nel ripensare alla relazione con l’altro, stereotipato nello straniero ostile: “sperimentare la malattia” e diventare ognuno l’altro di se stesso per esperire la diffidenza e il sospetto, in un viaggio interiore alla scoperta dell’Altro che abita in noi e che ci inquieta. Lo straniamento che vi si crea appare come territorio dialettico di tensione emotiva, ove convivono elementi antitetici, ascrivibili al concetto di “luoghi di anelito, non determinabili topograficamente, luoghi senza luogo”, sostenuti dal non luogo della scrittura. La lingua perde dunque l’intenzione mimetica di traduzione del mondo e incarna l’esperienza dell’impossibile: la materialità della parola si scontra con la sua propensione all’invisibilità, dando vita a una scrittura sempre meno dicibile, sempre più resistente. Attraverso l’analisi di opere che identificano la provocazione poetologica come unico fil rouge, si evidenzia che il silenzio si trasferisce dalla parola alla vita: il sipario aperto nella sala cinematografica consente al desiderio infantile di scomparsa di realizzarsi e nello spazio buio, nuovo luogo da abitare, l’io vi si immerge per immaginarsi altrove. L’analisi approda alla concezione di un esilio esistenziale, a cui partecipano in modo quasi opprimente gli assenti, i luoghi perduti e chi “resta nei ricordi, con i suoi modi di morire”, nell’eterotopia di contro-spazi, che sanno “giustapporre in un luogo reale più spazi normalmente incompatibili”. Specularmente la scrittura incalza con un movimento poetico e dialettico che è scrivere-tacere-scomparire, cogliendo la vita nella sua finitezza e rappresentandola attraverso forme in miniatura. L’incontro di queste immagini con la filosofia dà vita a prose asciutte e marginali, che catturano il senso nell’insignificante e si costruiscono togliendo elementi, più che aggiungendone. È uno stile ai margini di ogni stile, in cui si inciampa con interesse in aforismi presi in prestito da Emil Cioran, che si staglia come unico orizzonte di speranza. Il più maturo discorso sull’esistere, che riflette un esaustivo discorso sulla scrittura fondato su “Chance”, “Existenz” e “Nicht Sein”, possibilità-esistenza-non essere, legittima il pensiero secondo cui non nascere sarebbe una formula perfetta.La scrittura risponde ora a un bisogno esistenziale e linguistico, combattendo “contro il consumo della vita”: se risparmiare la vita è una missione a ritroso complessa quanto la scelta di non venire al mondo, preservare la parola è attuabile distillandola in poche righe, sottraendola al rischio di manipolazione. Si realizza quindi l’impegno più grande, quello contro l’intera esistenza, che si amplifica nel territorio linguistico attraverso l’affermazione-manifesto: “La mia lingua è una forma di anarchia”. Espulsa volontariamente dalla vita ed evasa da qualsiasi costrizione linguistica, Aichinger realizza la totale coincidenza tra scrittura ed esistenza, lasciando ai posteri un’eredità etica e inaudita: che non resti nulla della letteratura, che non resti nulla del nulla. Solo la Nicht-Existenz come prospettiva in cui la fuga da se stessi sia orientata verso l’Altro.