L’immagine bluastra della terra vista dall’oblò di una navicella è forse l’icona più nota, e più trasversalmente inclusiva, di quell’era spaziale che ebbe grande rilevanza simbolica nel periodo della guerra fredda. A partire dal lancio della navetta sovietica Sputnik 1, avvenuto il 4 ottobre 1957, l’esito di ogni missione astronautica sanciva la supremazia momentanea di uno dei contendenti, consegnando all’immaginario collettivo la figura dell’eroe nazionale o del martire, perché il disastro era sempre in agguato. Nel contesto della competizione aero-spaziale la Gran Bretagna, benché allineata con il Blocco Atlantico, si è collocata in una posizione marginale, che ha certamente favorito l’adozione di uno sguardo maggiormente distaccato e, almeno in parte, critico. Il Regno Unito non ha infatti voluto aderire ad alcun programma finalizzato al volo umano nello spazio; per gli astronauti anglosassoni partecipare alle missioni spaziali era dunque possibile solo a patto di esibire un’identità nazionale spuria o, almeno in parte, contaminata con l’alterità. La scelta britannica della marginalità (non già della neutralità) – una scelta consapevole, e ribadita negli anni – sembra aver contribuito all’esplicarsi di una maggiore libertà immaginativa. Non è quindi casuale che alla fine degli anni Sessanta la rappresentazione del disastro aerospaziale interessi diversi settori dell’arte e della cultura britannica e, in primis, la narrativa fantascientifica, che proprio in quel periodo vive una intensa stagione di rinnovamento: allo spazio siderale si sostituisce l’inner space, l’insondabile complessità della psiche, capace di reinterpretare criticamente le formule della fantascienza. L’immaginario catastrofico trova poi diretta espressione anche nella musica pop e nel cinema inglese contemporaneo. Accanto alla raffigurazione del viaggio interplanetario compare quella della sciagura, della missione conclusasi tragicamente perché, in ultima analisi, compromessa fin dall’inizio dalle molte e ineludibili complicazioni, difficolta materiali e contraddizioni ideologiche che la retorica ufficiale poteva forse nascondere, ma non certo cancellare. Il mondo visto dall’alto non è quindi solo quello che si presenta allo sguardo fiero dell’eroe, intento a prefigurare i fasti del trionfo: è anche quello della vittima sacrificale, che si presta tanto all’affermazione, come pure alla decostruzione dell’ideologia egemone.

(2011). Planet earth is blue and there’s nothing I can do. Memorie dell’era spaziale [journal article - articolo]. In ELEPHANT & CASTLE. Retrieved from http://hdl.handle.net/10446/25868

Planet earth is blue and there’s nothing I can do. Memorie dell’era spaziale

GUIDOTTI, Francesca
2011-01-01

Abstract

L’immagine bluastra della terra vista dall’oblò di una navicella è forse l’icona più nota, e più trasversalmente inclusiva, di quell’era spaziale che ebbe grande rilevanza simbolica nel periodo della guerra fredda. A partire dal lancio della navetta sovietica Sputnik 1, avvenuto il 4 ottobre 1957, l’esito di ogni missione astronautica sanciva la supremazia momentanea di uno dei contendenti, consegnando all’immaginario collettivo la figura dell’eroe nazionale o del martire, perché il disastro era sempre in agguato. Nel contesto della competizione aero-spaziale la Gran Bretagna, benché allineata con il Blocco Atlantico, si è collocata in una posizione marginale, che ha certamente favorito l’adozione di uno sguardo maggiormente distaccato e, almeno in parte, critico. Il Regno Unito non ha infatti voluto aderire ad alcun programma finalizzato al volo umano nello spazio; per gli astronauti anglosassoni partecipare alle missioni spaziali era dunque possibile solo a patto di esibire un’identità nazionale spuria o, almeno in parte, contaminata con l’alterità. La scelta britannica della marginalità (non già della neutralità) – una scelta consapevole, e ribadita negli anni – sembra aver contribuito all’esplicarsi di una maggiore libertà immaginativa. Non è quindi casuale che alla fine degli anni Sessanta la rappresentazione del disastro aerospaziale interessi diversi settori dell’arte e della cultura britannica e, in primis, la narrativa fantascientifica, che proprio in quel periodo vive una intensa stagione di rinnovamento: allo spazio siderale si sostituisce l’inner space, l’insondabile complessità della psiche, capace di reinterpretare criticamente le formule della fantascienza. L’immaginario catastrofico trova poi diretta espressione anche nella musica pop e nel cinema inglese contemporaneo. Accanto alla raffigurazione del viaggio interplanetario compare quella della sciagura, della missione conclusasi tragicamente perché, in ultima analisi, compromessa fin dall’inizio dalle molte e ineludibili complicazioni, difficolta materiali e contraddizioni ideologiche che la retorica ufficiale poteva forse nascondere, ma non certo cancellare. Il mondo visto dall’alto non è quindi solo quello che si presenta allo sguardo fiero dell’eroe, intento a prefigurare i fasti del trionfo: è anche quello della vittima sacrificale, che si presta tanto all’affermazione, come pure alla decostruzione dell’ideologia egemone.
journal article - articolo
2011
Guidotti, Francesca
(2011). Planet earth is blue and there’s nothing I can do. Memorie dell’era spaziale [journal article - articolo]. In ELEPHANT & CASTLE. Retrieved from http://hdl.handle.net/10446/25868
File allegato/i alla scheda:
File Dimensione del file Formato  
Planet earth Guidotti.pdf

accesso aperto

Versione: publisher's version - versione editoriale
Licenza: Creative commons
Dimensione del file 965.69 kB
Formato Adobe PDF
965.69 kB Adobe PDF Visualizza/Apri
Pubblicazioni consigliate

Aisberg ©2008 Servizi bibliotecari, Università degli studi di Bergamo | Terms of use/Condizioni di utilizzo

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10446/25868
Citazioni
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact