Nell’opinione pubblica contemporanea il selvatico è segno di periodi soggetti a gravi epidemie o indicatore di luoghi interessati dall’abbandono antropico (aree rurali e montane: Salsa, 2019) o dal venir meno, nei contesti urbani, della loro funzionalità (Clément, 2004; Metta, Olivetti, 2019). Esistono però anche ambiti in cui la fauna e la flora «selvatica» non si associano alla cultura del disastro o della crisi, ma agli esiti della reificazione territoriale, a dimostrazione di processi di coevoluzione tra natura e cultura: in cui le specie spontanee, con ampio margine di libertà, partecipano al completamento dei manufatti, arricchendoli e caratterizzandoli. Da questo punto di vista, particolarmente significativo è il concetto di «paesaggio minimo». Si tratta di tessere territoriali costituite da superficie esigue, frutto della trasformazione umana, inserite in contesti a elevata antropizzazione, caratterizzate da originalità, specificità geografica, valore storico-paesaggistico e identitario ed habitat di biocenosi di pregio naturalistico poco diffuse nelle aree contermini (Ferlinghetti, 2010, 2019a). Nei paesaggi minimi, insomma, la naturalità si appoggia all’artificialità. Con la loro presenza, questi paesaggi, oltre a svolgere un ruolo significativo quali serbatoi di biodiversità, stimolano la riflessione sull’ecologia dell’artificiale (D’Auria, 2019). Disvelando l’integrazione tra processi naturali e sviluppo urbano, l’ecologia dell’artificiale si pone come tema specifico della contemporaneità (Waldheim, 2006). Inoltre l’assumere la città come «un’ibrida ecologia vivente» segna la «dissoluzione tra antichi dualismi come quello tra natura e cultura, e smantella le nozioni classiche di gerarchia, delimitazione e centralità» (Corner in Clementi, 2011, p. s.n.).
(2023). Specie selvatiche, paesaggi minimi, biocenosi in movimento ed ecologia dell’artificialità . Retrieved from https://hdl.handle.net/10446/262591
Specie selvatiche, paesaggi minimi, biocenosi in movimento ed ecologia dell’artificialità
Ferlinghetti, Renato
2023-01-01
Abstract
Nell’opinione pubblica contemporanea il selvatico è segno di periodi soggetti a gravi epidemie o indicatore di luoghi interessati dall’abbandono antropico (aree rurali e montane: Salsa, 2019) o dal venir meno, nei contesti urbani, della loro funzionalità (Clément, 2004; Metta, Olivetti, 2019). Esistono però anche ambiti in cui la fauna e la flora «selvatica» non si associano alla cultura del disastro o della crisi, ma agli esiti della reificazione territoriale, a dimostrazione di processi di coevoluzione tra natura e cultura: in cui le specie spontanee, con ampio margine di libertà, partecipano al completamento dei manufatti, arricchendoli e caratterizzandoli. Da questo punto di vista, particolarmente significativo è il concetto di «paesaggio minimo». Si tratta di tessere territoriali costituite da superficie esigue, frutto della trasformazione umana, inserite in contesti a elevata antropizzazione, caratterizzate da originalità, specificità geografica, valore storico-paesaggistico e identitario ed habitat di biocenosi di pregio naturalistico poco diffuse nelle aree contermini (Ferlinghetti, 2010, 2019a). Nei paesaggi minimi, insomma, la naturalità si appoggia all’artificialità. Con la loro presenza, questi paesaggi, oltre a svolgere un ruolo significativo quali serbatoi di biodiversità, stimolano la riflessione sull’ecologia dell’artificiale (D’Auria, 2019). Disvelando l’integrazione tra processi naturali e sviluppo urbano, l’ecologia dell’artificiale si pone come tema specifico della contemporaneità (Waldheim, 2006). Inoltre l’assumere la città come «un’ibrida ecologia vivente» segna la «dissoluzione tra antichi dualismi come quello tra natura e cultura, e smantella le nozioni classiche di gerarchia, delimitazione e centralità» (Corner in Clementi, 2011, p. s.n.).File | Dimensione del file | Formato | |
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